sabato 4 ottobre 2014

Paolo VI, un papa nella tempesta

Ho partecipato con vivo interesse all'incontro di ieri sera su Paolo VI proposto dalla Fondazione san Benedetto e che ha visto riuniti il direttore del Giornale di Brescia, Giacomo Scanzi e il direttore de Il Foglio Giuliano Ferrara.



Calzante è la proposta di Scanzi che individua nel tema della modernità la chiave di lettura del pontificato di Montini. Direi tema più ambivalente che ambiguo. A maggior ragione se declinato come " poetica del camminare accanto all'uomo moderno con amicizia". Chiedo però se questa scelta di fondo di Paolo VI, ovvero di essere compagno dell'uomo in nome dell'amicizia, sia sufficiente, allora come oggi.

Sempre più chiaro emerge, e nella vita sociale e nella cultura attuali, che l'uomo moderno odia l'umano, sia l'umano che è in lui sia quello che è nell'altro. Che fare quando quest'uomo moderno accompagnato con amicizia dalla Chiesa uccide l'umano in sé e nell'altro?
Forse bisogna ricominciare a ricostruire dalle fondamenta la civiltà umana, sempre che non sia troppo tardi. Opera immane. Ci sono macerie da eliminare, cose preziose da recuperare, ripari di fortuna da approntare per proteggere i più deboli e nel contempo difenderci da chi continua a seminare odio per l'uomo e bombarda l'umanità con idee e azioni antiumane. Il card. de Lubac sj nel lontano 1943 identificava nell'ateismo, in particolare in Feuerbach, Compte e Nietzsche, la radice intellettuale dell'antiumenesimo (Il dramma dell'umanesimo ateo). Non si può prescindere dal giudizio, checchè ne dica papa Francesco, per rispetto della comune dignità umana e proprio per poter allestire un ospedale da campo che curi l'uomo ferito e non semplicemente ne sedi dolore e disagio. Infatti ogni cura presuppone una diagnosi in vista di una prognosi, tutte operazioni intellettuali proprie dell'arte medica che sono esercizi del giudicare. Viceversa il medico pietoso fa il malato gangrenoso. Il medico sceglie la via larga e facile della pietà quando dice ciò che il malato vuol sentirsi dire e non in scienza e coscienza quello che è giusto perché vero.
Che fare quando la via intrapresa dall'uomo moderno ha come meta il male e la morte?
Come si declina la compagnia amichevole della Chiesa per l'uomo moderno quando esso si rivela malvagio, mortifero e mortale?
Compagnia silenziosa e simpatetica, perciò sciapa ed inutile, oppure compagnia che mette sull'avviso anche alzando la voce, ma egualmente inutile perché inascoltata?
Fin dove deve spingersi la scelta di accompagnare l'uomo moderno sulle sue vie (la modernità secondo Del Noce è qualificata da scristianizzazione, antimetafisica, laicizzazione della fede)? Anche fino al punto di tradire se stessi, rinnegando la propria identità e la propria storia, annichilendosi nel vuoto mainstream del pensiero dominante, un pensiero così indebolito dal pensiero debole da non essere più pensiero ma chiacchiera rumorosa in cui la tecnoscienza domina incontrastata? Oppure bisogna custodire responsabilmente il dovere di obbedire alla coscienza illuminata dalla Verità?

Vera è la constatazione fatta da Ferrara circa la decisione di Paolo VI che non volle più scrivere alcuna enciclica dopo le contestazioni cui fu umiliato a causa dell' Humanae Vitae (1968), per non diventare causa di divisioni nella Chiesa. Vera e molto triste, perché ingiusta fu la contestazione e rinunciataria la reazione papale. Gesù disse: " Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l'uomo da suo padre [...] e nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa" (Mt 10,34-36).




Talvolta le polemiche sono inutili perché sterili, altre volte sono necessarie e vanno combattute senza paura.
Complimenti alla fondazione san Benedetto per aver invitato Ferrara e Scanzi a dialogare su Paolo VI.
Come un marziano, ho scoperto solo nell'Aula Magna della Cattolica, dove si è svolto l'incontro, delle polemiche che hanno animato il peteguless della provinciale città di Brescia, anzi, dei provinciali cattolici bresciani. Su queste acide zitelle emerge per signorilità ed umanità Giuliano Ferrara.
Riflettendo sulla situazione ho catalogato due tipi di non credenti e altresì due tipi di credenti.
C'è il non credente felice e soddisfatto della sua miscredenza nella quale orgoglioso crede, incosciente dell'autocontraddizione; di solito costoro odiano visceralmente il corpo di Cristo.
Il secondo tipo di non credente è infelice perché conscio di non avere qualcosa in cui credere cerca e desidera e quasi invidia il credente, non perché tale, ma perché ha trovato.
C'è il credente infelice e insoddisfatto perché non ama la verità in cui gli tocca credere suo malgrado e invidia il miscredente felice e lo cerca perché gli sia maestro.
Infine c'è il credente felice perché ama umilmente la verità che l'ha trovato.
Mentre il credente infelice cerca il miscredente felice, il miscredente infelice cerca il credente felice.

domenica 28 settembre 2014

Paolo VI beato



Sono un cattolico bresciano, nato quattro mesi prima della conclusione del Concilio Vaticano II, e mi vanto di aver ricevuto al fonte battesimale il nome dell’apostolo delle genti e ciò in onore di papa Montini che due anni prima aveva scelto il nome di Paolo per esprimere: “l'ansia missionaria per la diffusione universale, chiara, suadente dell'Evangelo” come il neoeletto disse nel suo primo messaggio rivolto all’intera famiglia umana (22 giugno 1963). Così dal 19 ottobre 2014 avrò un altro patrono in cielo, accanto a san Paolo apostolo, il beato papa Paolo VI.
La beatificazione di Paolo VI cade in occasione del Sinodo dei Vescovi che si terrà sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione. Tre elementi che hanno radici nell’opera di papa Montini: il Sinodo dei Vescovi, la famiglia e l’evangelizzazione. Il Sinodo dei Vescovi fu istituito da Paolo VI “per dare ai vescovi la possibilità di prendere parte in maniera più evidente e più efficace alla Nostra sollecitudine per la Chiesa universale” (Apostolica sollicitudo) e lo volle come: “consiglio permanente di Vescovi per la Chiesa universale, soggetto direttamente ed immediatamente alla Nostra potestà”. La famiglia è elemento centrale dell’HumanaeVitae, enciclica dedicata al “dovere di trasmettere la vita umana, per il quale gli sposi sono liberi e responsabili collaboratori di Dio creatore” (HV 1). Tale Enciclica divenne la più contestata della storia ecclesiastica sulla quale si coagularono così tante critiche da indurre il prolifico autore nonché papa Montini a cessare di scriverne, mentre nei primi cinque anni di pontificato aveva scritto ben sei Encicliche. L’evangelizzazione fu uno degli assi portanti del suo pontificato, oltre al nome scelto come Sommo Pontefice, egli come novello apostolo delle genti ricominciò i viaggi apostolici per portare ad ogni uomo e a tutto l’uomo il Vangelo di Gesù Cristo.

Papa Paolo VI 21.VI.1963-6.VIII.1978

Ma se si vuole onorare in spirito e verità la memoria di questo grande papa del XX secolo, la Santa Madre Chiesa deve  intraprendere un serio esame di coscienza, per giudicare davanti a Dio il comportamento tenuto dalla Chiesa e dai suoi membri nei confronti di papa Paolo VI per fare ammenda pubblicamente e sinceramente del male arrecatogli e così arrecato alla causa del Vangelo. Solo così onoreremo sinceramente il papa bresciano e renderemo giustizia al suo pontificato. Non ha senso metterlo sugli altari per continuare nell’opera infausta di tradimento dei suoi insegnamenti. Bisogna fare un’operazione di verità sul suo pontificato che si svolse in anni cruciali per la Chiesa e per l’umanità, gli anni '60 e '70 del secolo scorso. Anni in cui continuò lo scontro tra i due blocchi. Nel blocco orientale i regimi comunisti perseguitarono violentemente e frontalmente la Chiesa, cercando di estirpare Dio dal cuore dell’uomo e della società, e formare l’uomo nuovo. Nel blocco occidentale l’opera di scristianizzazione si svolgeva e prosegue fino ad oggi in modo non violento e subdolo, riducendo gli spazi a disposizione della dimensione religiosa umana e del fatto cristiano alle sole parrocchie, poi alla sagrestia, infine alla coscienza individuale, cercando di rendere la questione di Dio irrilevante perché insignificante, al più un mero reperto del passato. Mentre il comunismo stava ancora dilatando i suoi spazi nelle periferie del mondo, il colonialismo ottocentesco stava smobilitando con il lungo processo della decolonizzazione e della formazione di nuovi Stati nel terzo e quarto mondo. Nel primo mondo, dal 1968 in poi, una nuova crisi sociale, politica e culturale travolse società uscite da poco dalla ricostruzione post bellica, in Italia la società si stavano inurbando in seguito al rapido processo di industrializzazione. Anni cruciali anche per la Chiesa, la cui vita venne segnata dal Concilio Vaticano II e dalla riforma liturgica che bene o male ne scaturì; dalla partecipazione ufficiale della Chiesa Cattolica al movimento ecumenico; dalla riformulazione della dottrina e della pastorale; dalla grave crisi delle vocazioni sacerdotali e degli antichi ordini religiosi e dalla crescita dei movimenti nella Chiesa; dalla conversione della Chiesa e del cristianesimo da fenomeno prevalentemente occidentale, a fenomeno mondiale; la fiammata della teologia della liberazione.
 
Basilica Vaticana 7 dicembre 1965, Paolo VI alla chiusura del Concilio Vaticano II
Paolo VI viene spesso chiamato papa del Concilio. Definizione ambigua che richiede d'essere precisata. Montini fu uno dei due papi del Concilio Vaticano II assieme a papa Roncalli che il Concilio lo convocò e ne guidò il primo periodo (1962-63). Paolo VI riconvocò il Concilio, lo guidò nei successivi tre periodi (1963-65) e approvò i sedici documenti conciliari; solo grazie alla sua vigilanza, lungimirante e cattolica, tutti i documenti del Concilio vennero approvati a stragrande maggioranza, quasi all’unanimità, evitando così il rischio gravissimo di una scisma. Fu sicuramente un papa del Concilio reale che si svolse nella Basilica Vaticana e che parlò per mezzo dei suoi testi, mentre non fu mai il papa del pseudo-concilio che si svolse sui media e che prese il sopravvento nell’opinione pubblica del mondo e nella giovanissima opinione pubblica della Chiesa. Anzi, Paolo VI fu subito la bestia nera dei fautori dello spirito del Concilio, spirito evanescente, disincarnato e molto utopico, come andava di gran moda negli anni '60 del secolo scorso. Papa Montini impose la Nota esplicativa previa alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa, con cui collocò la collegialità episcopale dentro e sotto il primato petrino del vescovo di Roma, in continuità con la Tradizione cattolica ed in particolare con il Concilio Vaticano I. Perciò i fautori dello spirito del Concilio lo considerarono traditore del loro concilio e iniziarono a contrapporlo all’altro papa del Concilio, a san Giovanni XXIII, cosa che si ripeté ad ogni papa successivo, essendo sempre meglio il papa appena morto del papa regnante. Quindi da buon bresciano coi piedi per terra, seppur raffinato intellettuale, Paolo VI fu il papa del Concilio reale, un Concilio da interpretare e da attuare nel solco della Tradizione, come insegnato da Bendetto XVI.

Basilica Vaticana 29 settembre 1963, Paolo VI intronizza i Vangeli all'inizio della II Sessione Concilio Vaticano II


Paolo VI ha unito indelebilmente il suo nome alla riforma liturgica scaturita dal Concilio Vaticano II, avendo promulgato tutti i libri liturgici riformati secondo i decreti di quel Concilio. Come tutte le opere umane, anche quelle ispirate da Dio, pure la riforma liturgica nata dal Vaticano II è perfettibile e deve essere valutata sia riguardo alla coerenza coi decreti conciliari, sia riguardo ai frutti spirituali che ha portato. Un impegno, questo, enorme che sarà svolto negli anni a venire. Mi permetto solo alcune considerazioni che sono il mio modestissimo contributo a tale messa a punto.
Trovo errata la decisione di togliere dal Salterio liturgico i Salmi ed i versetti imprecatori, come stabilito dalla Costituzione Apostolica Laudis Canticum: “In questa nuova distribuzione dei salmi sono stati omessi alcuni salmi e versetti dall'espressione alquanto dura, tenendo presenti specialmente le difficoltà che potrebbero nascere dalla loro celebrazione in una lingua moderna”(LC 4). Di fatto il Salterio liturgico attualmente in uso nella Chiesa Cattolica è filomarcionita, per suo tramite tale antica eresia si è nuovamente introdotta nella Chiesa. Sono state omesse dal Breviario quelle parole di Dio giudicate dure. Così facendo non si accetta di stare sotto il giudizio di Dio che parla, ma si osa giudicarne le parole, imitando non il divino Maestro, ma quei discepoli che dopo aver ascoltato il discorso sul pane di vita nella Sinagoga di Cafarnao dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Siffatta scelta arrogante e al contempo rinunciataria si ripercuote e si moltiplica in altri ambiti della vita della Chiesa, divenuta incapace di chiedere impegno serio e responsabile ai suoi membri. L’uomo cerca la sfida, desidera essere messo alla prova, vuole impegnarsi a superare i suoi limiti e se non trova ciò dalla Chiesa, lo cerca altrove.

Paolo VI orante
 La riforma del Rito della Messa si caratterizza per due novità principali, pur non riducendosi ad esse: l’abbandono del latino come unica lingua liturgica per adottare le lingue vernacolari; il cambio di direzione del sacerdote, dall’essere rivolto verso il Signore all’essere rivolto verso il popolo. In particolare questo cambio di orientamento è stato decisivo nel marcare il cambiamento tra l’una e l’altra forma del Rito. Mi pare che la soluzione adottata non sia affatto soddisfacente. Essa pecca, esattamente come la precedente, di parzialità e di staticità, rappresentando una sola metà della mediazione di Cristo. Nella forma straordinaria del Rito Romano il sacerdote rappresenta esclusivamente il popolo che prega rivolto a Dio, mentre nella forma ordinaria del medesimo e unico Rito rappresenta esclusivamente Dio che si rivolge al popolo. Viceversa il ruolo del sacerdote nella Liturgia Eucaristica è di agire nella persona di Cristo capo, rappresentando dal vivo l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, la cui mediazione consta di due movimenti inseparabili e distinti: essere Dio per gli uomini ed essere uomo per Dio. La mediazione di Cristo si fonda sulla divina incarnazione del Verbo ed esprime la sua passione, morte, resurrezione e ascensione. Per rappresentare visibilmente tale mediazione di Cristo, il sacerdote dovrebbe rivolgersi ora verso il popolo, ora verso il Signore: rivolto al popolo quando rappresenta la rivelazione di Dio avvenuta in Cristo, rivolto al Signore Dio quando rappresenta l’umanità redenta da Cristo che prega il Padre. Quindi il sacerdote dovrebbe girare attorno all’altare e non stare fermo in una sola posizione, perché Cristo, al cui mistero sacerdotale appartiene, non è solo Dio né solo uomo, ma è Dio e Uomo.

Gerusalemme 5 gennaio 1964, PaoloVI e Atenagora
New York 4 ottobre 1965, Paolo VI parla all'ONU
Paolo VI è stato il papa del dialogo, dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo, come egli  scrisse mirabilmente nell’Ecclesiam suam, enciclica programmatica del suo pontificato. Dialogò ininterrottamente con tutti, esercitando le doti umane e spirituali affinate nei lunghi anni al servizio della Chiesa. Paolo VI ha elencato gli interlocutori del dialogo ai quali la Chiesa desidera rivolgersi, con la bella figura dei cerchi concentrici che si formano sull’acqua, partendo dall’esterno il primo cerchio sono gli uomini, poi i credenti in Dio, quindi i cristiani fratelli separati, infine i figli della Chiesa Cattolica. Purtroppo fu un dialogo presto interrotto! Paolo VI non cambiò idea, non smise di credere nel dialogo e di praticarlo nonostante molte porte gli furono chiuse in faccia. Rimase un convinto assertore del dialogo fin dentro la tragedia del terrorismo che insanguinò quel periodo della storia italiana, stagione culminata nel sequestro Moro, ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse. Restano indelebili ed inascoltate le parole con cui si rivolse prima agli uomini delle BR e poi, poco dopo, a Dio. Il dialogo da lui pensato per riconciliare la Chiesa con il mondo abortì perché l'interlocutore non era interessato a dialogare con la Chiesa. Accadde nuovamente quello che era già successo all’apostolo Paolo quando parlò all’agora ateniese: “Quando sentirono parlare di resurrezione dei morti alcuni lo deridevano, altri dicevano: «Su questo ti sentiremo un'altra volta»” (At 17, 32). Paolo VI venne e viene deriso dai figli della Chiesa Cattolica, cardinali, vescovi, preti, religiosi e laici che contestarono e rifiutarono l’Humanae Vitae senza per questo subire alcuna conseguenza, ma venendo osannati dalla stampa e dagli intellettuali: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6,26).
Il nodo tuttora irrisolto è appunto il dialogo interrotto perché rifiutato. Al rifiuto patito Paolo VI reagì da buon cattolico lombardo e perciò inevitabilmente borghese, facendo penitenza personale:  indossò il cilicio fino alla morte. Ma ciò non è una soluzione, al massimo è una soluzione temporanea o parte di una soluzione ancora da trovare. Cosa deve fare la Chiesa se il mondo contemporaneo la ignora, la deride, la elimina?

Roma 13 maggio 1978, Paolo VI alla messa in suffragio di Aldo Moro


domenica 8 giugno 2014

Delle cose da chiedere. VII B

Il settimo giorno la preghiera ha da essere moltiplicata per adempiere l’opera divino-umana del culto. Fondamento del culto sono le tre azioni compiute da Dio nel giorno di Sabato: "Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando" (Gen 2,3). L'ordine con cui Dio compie le tre azioni che creano il Sabato e sono le fondamenta divine del culto umano (benedire-consacrare-riposare), viene imitato dall'uomo con il culto divino, ma secondo l'ordine inverso (riposare-consacrare-benedire), perché l'immagine creata riflette capovolta il prototipo divino increato. Come Dio mostrò il prototipo al suo servo Mosè: "Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte" (Es 25,40), così l'umile Mosé fece.
Marc Chagall, Amanti nei lillà (1930)
Il riposo è quindi il Vestibolo che introduce l'umanità nel grande mistero del culto divino. Per l'uomo questa è la prima azione per poter entrare nel culto, è la cesura assolutamente necessaria che distingue il feriale dal festivo, la durezza del lavoro dalla dolcezza del cessarlo, la fatica dal ristoro, la sistole dalla diastole. Astenersi dalle azioni feriali è la premessa necessaria per potersi dedicare integralmente alle azioni festive. C'è un tempo per lavorare e un tempo per riposare. E come il lavoro non è fine a se stesso, così il riposo non è fine a se stesso, ma il fine e del lavoro e del riposo è Dio. Le azioni comprendono tutte le attività umane, riguardano ogni sfera della vita dell'uomo, quella corporea e quella spirituale, il lavoro fisico e quello intellettivo, cosicché bisogna astenersi non solo dai lavori feriali, ma anche dai pensieri ordinari, per occupare la mente nei pensieri che riguardano Dio e "amarlo con tutta la mente" (Mc 12,31). Anche il riposo non è fine a se stesso, non è puro vuoto, nirvana, ma semplice astensione dalla fatica ordinaria del lavoro, per poter godere in pienezza del lavoro stesso e dei suoi frutti, e godere fiduciosi dei beni del creato e dei beni sovraessenziali dell'Increato. ma per godere di tutto ciò è necessario astenersi, uscire dallo scorrere degli istanti che ci travolgono per salire oltre e vivere l'istante, fermarsi per passare dal cronos al kairos, dalla cronaca all'evento.
Marc Chagall, Amanti sopra San Paul de Vence (1971-72)

Come al Vestibolo segue il Santo, al riposo segue il Consacrare. Con tale azione qualcuno o qualcosa viene dedicato esclusivamente ad un fine particolare. Tale destinazione esclusiva lo mette da parte, dedicandolo al suo destino. Israele è il popolo scelto da Dio tra tutti i popoli perché riceva la sua rivelazione e sia la primizia tra i popoli; nel popolo che il Signore ha dichiarato “è il mio figlio primogenito” (Es 4,22), un ruolo peculiare lo rivestono i primogeniti, umani e animali, tutti consacrati al Signore e tutti da riscattare. Noi dobbiamo seguire l’esempio di Gesù nostro Signore, il quale nella notte in cui fu tradito, pregò per i suoi discepoli: “Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,19). Gesù si consacrò per tutti quelli che credono in lui, tanto i presenti quanto quelli futuri, perché siano consacrati nella verità, la solida Roccia che rende l’uomo-polvere un credente. L’apostolo Paolo ricorda ai gentili la verità della fede umile: “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12) ed anche il debito contratto con Israele: “Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te!” (Rom 11,18). L’apostolo, non solo esorta a non vantarsi contro Israele, chiama a testimoni della propria sincerità Cristo e lo Spirito Santo e dichiara solennemente: “Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne” (Rom 9,3). Con questa dichiarazione d’amore per gli Ebrei, Saulo segue “la via nuova e vivente” inaugurata da Gesù nella sua carne (Eb 10,20) quando accettò di morire “giusto per gli ingiusti” (1Pt 3,18). Ciò lo riconobbe anche Caifa quando dichiarò: “è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo” (Gv 11,50); l’evangelista riconosce che Caifa non lo disse cinicamente da uomo di governo “ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione”(Gv 11,51). Tale via di sostituzione vicaria ha un illustre precedente in Mosè, quando fermò l’ira divina contro il popolo, il quale aveva appena sancito l’alleanza con il Signore e subito l’aveva anche tradita idolatrando il vitello d’oro, come sta scritto: “Ed egli li avrebbe sterminati, se Mosè, il suo eletto, non si fosse posto sulla breccia davanti a lui, per impedire alla sua collera di distruggerli” (Sal 106[105],23). Questo amore per il popolo della prima alleanza è il giusto ringraziamento per aver donato al mondo la salvezza di Gesù Cristo, come sta scritto: “La salvezza viene dai Giudei” (Gv 4,22) e ancora: “a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti”(Rom 11,11), poiché "da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli" (Rom 9,5). Perciò è doveroso consacrarsi per Israele intercedendo in suo favore, affinché ricordando si converta e faccia ritorno al Signore suo Dio, come è scritto: “O Dio, fa che ritorniamo, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal 80[79],4). La memoria è la cifra spirituale d’Israele e sua missione divina. Il ricordo riguarda anzitutto le opere fatte da Dio in favore del suo popolo amato: le promesse fatte ai padri, l’elezione, le alleanze, le liberazioni dalle schiavitù per ricevere i doni della Legge e della terra e attendere il dono escatologico del Messia. Poi il ricordo riguarda anche i tradimenti d'Israele “popolo di dura cervice”, come tutti gli uomini peccatori. Il ricordo dei peccati non serve ad inchiodare Israele al fallimento, nemmeno in vista della sua sostituzione, negata dall'apostolo Paolo quando scrive: "Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! [...] Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. [...] quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rom 11,1.11.26). Ci si ricorda del proprio peccato solo per confidare in: "Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione" (Es 34, 6-7). 
Marc Chagall, Amanti vicino ad un ponte (1948)
 Infine, come il Santo introduce al Santo dei Santi, così la consacrazione introduce al Benedire. La benedizione è una parabola costituita da due archi. Il primo arco discendente e originario è la benedizione con cui Dio crea, redime e santifica il creato. Il secondo arco ascendente e responsoriale con cui l'umanità riconosce Dio come sorgente e lo ringrazia, confessa la bontà delle creature e delle azioni di Dio e condivide fraternamente i suoi doni. Il nome Debir ha la stessa radice di Davar: dalet-beth-resh. La Parola è l'elemento peculiare del Dio biblico e conseguentemente dell'uomo biblico. Il nostro Dio parla, parlando crea il mondo e agisce nella storia e ci parla come ai suoi amici; il creato è un mondo intelleggibile e gli uomini sono capaci di comprendere il linguaggio di Dio. Questo è il grande mistero della divino-umanità, ovvero della santificazione del Nome. Alla sequela di Gesù “figlio di Davide secondo la carne” (Rom 1,3) il settimo giorno è necessario benedire Dio per Israele e sul popolo della prima alleanza invocare la benedizione dell’Altissimo, com’è detto nei Salmi: “Sia pace su Israele” (Sal 125[124],5; 128[127],6) e dall’apostolo Paolo: “il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza” (Rom 10,1). Israele è motivo di ringraziamento eterno a Dio per la sua mera esistenza che testimonia la grandezza e la bontà di Dio. Infatti, provengono da Israele e al popolo eletto appartengono per sempre l’umanità di Gesù, suo padre e sua madre, i discepoli e gli apostoli sui quali è edificata la Chiesa. Come recita l'inno apostolico: "Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo" (Ef 1,3). Perché è in Gesù, figlio d'Israele e Messia, che noi pagani abbiamo parte alla salvezza; il Nome santo di Gesù che dobbiamo benedire, Nome che significa Dio salva e nel quale perciò è santificato il Figlio insieme al Padre, santificazione possibile solo grazie allo Spirito Santo, nel quale non solo si dichiara: "Gesù è Signore" (1Cor 12,3), ma anche si grida: "Abba, Padre" (Rom 8,15). 

In conclusione le parole del profeta Amos: “Cercate il Signore e vivrete” (Am 5,6) riassumono compiutamente le cose buone da cercare. Il Deus absconditus e nessun altro è la meta finale cui il creato anela: “perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28).
Marc Chagall,  Amanti (1981)

domenica 1 giugno 2014

Delle cose buone da chiedere. VII A

Marc Chagall, Candele dello Shabbat (1909)
A proposito del Sabato bisogna affrontare un paio di questioni preliminari.
La prima questione riguarda la mistica corrispondenza tra lo Shabbat, il Tempio e l'Uomo. Tre azioni sono compiute da Dio il settimo giorno: "Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando" (Gen 2,3); tre sono gli ambienti in cui Salomone suddivise il Primo Tempio: 'ulam (Vestibolo), Hechal (Luogo Santo) e Debir (Luogo Santissimo); tre sono le relazioni con cui Dio forma la persona umana, come è scritto: "Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo" (1Tess 5,23), lo spirito esprime la relazione con Dio, l'anima la relazione con se stessi, il corpo la realzione con il mondo.
'ulam era il Vestibolo, luogo dove i sacerdoti compivano il cambio d'abito, spogliandosi dei vestiti ordinari per indossare gli abiti sacri. La vestizione è indispensabile rito preparatorio al culto, esso manifesta sul piano empirico ed esterno ciò che deve accadere sul piano interno ed invisibile, ovvero la deposizione di tutto ciò che è superfluo e la rinuncia ai pensieri malvagi, per indossare ciò che è eterno e plasmare la propria mente con il pensiero di Dio. Ad esso corrisponde il riposo, con il quale ci si spoglia delle azioni feriali per potersi dedicare interamente all'opus Dei. 'ulam e riposo corrispondono al corpo, elemento umano che riflette sul piano empirico il piano metafisico e ci accomuna alle creature materiali.
Hechal era il Luogo Santo dove si trovavano l'Altare d'oro dei profumi, la Tavola dei Pani dell'offerta e la Menorah. Il Candelabro a sette braccia illuminava il Santo con le sue sette lampade, esse rappresentano la Luce divina che illumina ogni giorno della settimana. Davanti all'ingresso del Debir c'era la Tavola sulla quale stavano dodici pani, rinnovati settimanalmente, a rappresentare le dodici tribù d'Israele sempre alla presenza del Signore. Infine l'Altare aureo dei profumi, sul quale i sacerdoti offrivano mattina e sera l'incenso a Dio, segno delle preghiere d'Israele. All'Hechal corrisponde l'azione di consacrare il mondo al Creatore. La sua Parola che in principio creò il mondo, sempre lo illumina (Menorah) come è scritto: "Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino" (Sal 119[118],105) rendendo intelleggibile il mondo alle creature intelligenti, delle quali desidera la compagnia (Tavola dei pani) e le preghiere (Altare dei profumi). Hechal e consacrazione corrispondono all'anima, elemento umano invisibile che ci accomuna alle creature invisibili, razionali e libere.
Debir era il Luogo Santissimo che custodiva l'Arca dell'Alleanza, coperta dal Kapporet (Propiziatorio), sul quale dimorava la Gloria del Signore. Nel Santo dei Santi entrava una volta all'anno il Sommo Sacerdote per compiere i riti espiatori, aspergere il Propiziatorio con il sangue del capro e invocare il Nome di Dio; cioè per espiare i peccati che impediscono agli umani di avere libero accesso a Dio tre volte Santo. Al Debir corrisponde l'azione di benedire, azione divino-umana per eccellenza. Debir e benedizione corrispondo allo spirito, radice metafisica dell'uomo meglio chiamata col nome di cuore, come è scritto: "Dio è roccia del mio cuore" (Sal 73[72],26) e la sua parola: "penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito ... e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore" (Eb 4,12).

Marc Chagall, Sinagoga (1917)

 La seconda questione preliminare riguarda il rapporto di Gesù con il Sabato. Gesù osservò il comandamento del Sabato e lo portò a compimento. In quanto uomo, figlio d'Israele e discendente di Davide lo osservò fedelmente, frequentando con assiduità il culto sinagogale (Mt 12,9-10) a Cafarnao (Mc 1,21; Gv 6,59) e a Nazaret (Lc 4,16). In quanto Figlio di Dio, vero Dio e Signore, Gesù non si limitò ad osservare la Legge, ma anche la portò a compimento, prediligendo il giorno di Sabato per insegnare (Mt 12,1s; Mc 1,21; Lc 4,31; 13,10; Gv 5; 9), dato che nel riposo e nel culto sabbatici, Dio stesso ammaestra il suo popolo. Inoltre, gli insegnamenti sabbatici di Gesù dati con autorità, la stessa di Dio, furono accompagnati da miracoli e segni: le guarigioni dell’uomo dalla mano inaridita (Mt 12,10-12), della suocera febbricitante di Simone (Mc 1, 30-31), della donna curva da diciotto anni (Lc 13,11-13), dell’idropico (Lc 14,1-4), del paralitico da trentotto anni (Gv 5,5-9), del cieco nato (Gv 9,6-7) e l’esorcismo nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,25-26). Questi sette miracoli furono compiuti da Gesù nel giorno benedetto del Sabato non casualmente, ma intenzionalmente quale segno che conferma l'insegnamento sabbatico di Gesù: parole ed opere che rivelano il mistero messianico di Gesù.
C’è chi giudica il comportamento di Gesù verso il Sabato una palese violazione del comandamento divino. Se il giudice è ebreo ne trae motivo per condannarlo come peccatore (Mc 3,2; Lc 13,14; Gv 5,18; 9,16), se invece è cristiano esalta il rifiuto e la ribellione contro la Legge di Mosè (sic!) come se il Figlio obbediente fino alla morte di Croce potesse e volesse ribellarsi all’unica volontà di Dio suo Padre! Io trovo che il comportamento di Gesù verso il Sabato non sia stata una violazione del terzo Comandamento ma il suo inveramento, secondo il principio formulato da Gesù stesso: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti, non sono venuto per abolire ma per dare compimento” (Mt 5,17).
Gesù iniziò a compiere il Sabato con la sua predicazione e coi segni che l’accompagnarono, fino a compiere escatologicamente il Sabato come Disceso agli inferi: dopo la sua morte redentrice in Croce, il suo cadavere fu sepolto nel sepolcro nuovo di Giuseppe d'Arimatea e la sua anima discese agli inferi preda della Morte, del Peccato e del Diavolo. Il Dio-Uomo non è più un soggetto attivo, è un morto tra i morti, reso oggetto della solitudine estrema “senza Dio e senza speranza” (Ef 2,12), preda del male e della passività. Compie così perfettamente il riposo di Dio e simultaneamente adempie al comandamento di Dio.
Tale passività del Figlio nella morte non è soltanto solidarietà coi morti, è anche offerta libera e integrale obbedienza al Padre, cose fatte da Gesù nel'ultima cena e nell'orto degli ulivi, quando donò se stesso per la salvezza del mondo con libera adesione alla volontà di Dio. Tale atto di offerta, che costituisce la sua morte in Croce come unico e definitivo sacrificio, lo costituisce e rivela come sommo Sacerdote che offre a Dio niente altro se non se stesso e così trasforma alla radice il suo prossimo essere preda della morte, in atto d'offerta libero che libera ogni peccatore dalla schiavitù del peccato e della morte. compiendo il senso del Sabato.

domenica 25 maggio 2014

Delle cose buone da chiedere. VI

Il sesto giorno ricordiamo la creazione dell’uomo e la morte di Gesù. Questi due fatti storico-salvifici si illuminano a vicenda, perché non casualmente sono accaduti nello stesso giorno, ma appunto per rivelare che Cristo è il compimento dell'uomo e della creazione. La creazione dell'uomo, maschio e femmina, avviene "per Cristo, con Cristo e in Cristo", cioè in vista di Cristo Nuovo Adamo, con Cristo Verbo di Dio incarnato e in Cristo Immagine prototipica di Dio; Gesù muore per redimere l'umanità decaduta e rigenerarla mediante il suo corpo donato, dal quale è tratta la Chiesa nuova Eva. Perciò in questo giorno conviene intercedere per tutti i morti nel corpo, nell'anima e nello spirito.


Con il corpo si muore una volta sola e gli uomini preferiscono la morte naturale posta al termine della vecchiaia, anche se purtroppo non è rara la morte contro natura: violenta, oppure improvvisa, altrimenti precoce. Perciò è opportuno intercedere per tutti i morti, iniziando dai propri. Poi, è utile supplicare Dio, Signore dei vivi e dei morti, perché liberi noi morituri dalla morte improvvisa e ci conceda una morte salutare. 
La morte nell'anima e quella nello spirito sono solo metafore, poiché né l’anima né lo spirito sono mortali. La morte dell’anima è metafora del peccato, col quale la creatura razionale recide il legame vitale con il Creatore, cosa che può accadere molte volte e che purtroppo accade sempre troppo spesso. La morte dello spirito è metafora della "morte seconda" (Ap 2,11; 20,14) alla quale sono destinati diavoli e dannati, miserevoli creature di Dio che hanno deciso irrevocabilmente di rifiutare Dio. Perciò è opportuno intercedere per tutti i peccatori, a partire da se stessi, perché Dio giudice misericordioso abbia pietà di noi.
Pare cosa buona e giusta intercedere per i morti e per i peccatori nel sesto giorno nel quale, non solo Adamo peccò e introdusse nel mondo la morte (Gen 3; Rom 5), ma soprattutto: “Gesù morì per gli empi” (Rom 5,6), espellendo il principe di questo mondo, come è scritto: “Ora, il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31) e ponendo la premessa per donare lo Spirito Santo per il perdono dei peccati (Gv 20,22-23).
Domenico Signorelli, Crocefissione (1500)

domenica 18 maggio 2014

Delle cose buone da chiedere. V

Il quinto giorno nel quale si ricorda la creazione dei pesci e degli uccelli è opportuno intercedere per i pastori cui siamo affidati e per le pecore che ci sono affidate. Gesù, che era  falegname e figlio di falegname, ha scelto dei pescatori galilei e li ha chiamati così: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini” (Mc 1,17) per costituirli pescatori di uomini e affidare loro la missione di raccogliere. La missione affidata agli apostoli continua la missione messianica di Gesù nei confronti di Gerusalemme: “quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali” (Lc 13,34) nella quale egli si paragona alla chioccia che raccoglie i suoi pulcini, come il pastore che guida il suo gregge. Gesù è il pesce grande che ci salva, come espresso nell'antichissimo acronimo ICTYS. Pesci ed uccelli. I pesci da raccogliere, come le pecore da custodire, sono figure della nostra condizione di figli. Gli uccelli che raccolgono i loro piccoli, come i pastori, sono figure della nostra condizione di custodi del creato, come è scritto: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen 2,15).

  
Cuyp Benjamin, Adorazione dei pastori (XVII sec.)

Ciascun uomo, infatti, è affidato a qualcuno che deve vegliare su di lui e prima o poi ciscun uomo deve custodire qualcuno che a lui è stato affidato, come è scritto: "Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?" (Gen 4,9). In verità ciascun uomo custodisce il suo prossimo ed al suo prossimo è affidato, perché come insegna l'apostolo Giovanni: "Se uno dice: "Io amo Dio" e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1Gv 4,20). Per fortuna, non siamo custoditi soltanto dal nostro prossimo che può rivelarsi Abramo o Caino, amico o nemico, ma siamo custoditi dagli Angeli che Dio ha messo al nostro servizio, come è scritto: "Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato" (Es 23,20), oppure: "Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie" (Sal 91[90],11). 

Bronzino Agnolo, Adorazione dei pastori, dettaglio (1539-40)

Il ministero spirituale degli Angeli rivela la divina protezione: "Il Signore è il mio pastore" (Sal 23[22],1), manifesta che il Custode per antonomasia, Colui che tutti e tutto custodisce nel suo amore fedele è Dio Padre Onnipotente Creatore del cielo e della terra, come sta scritto: "Al mio nascere a te fui consegnato; dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio" (Sal 22[21],11). Anche il Figlio di Dio custodisce tutti quelli che gli sono dati dal Padre, essendo "il buon Pastore che dà la propria vita per le pecore" (Gv 10,11), infatti questo è anche il giorno in cui Gesù ha istituito la santa Eucaristia, con cui il Pastore diventa l'Agnello di Dio ed il Sacerdote diventa la Vittima.
Quindi è cosa buona e giusta nel giorno in cui il Signore ha consegnato il suo testamento d’amore (Gv 13) intercedere per i pastori ai quali siamo affidati, papa, vescovo, parroco e catechisti. In particolare per il successore di Pietro, al quale siamo stati affidati da Gesù risorto quando, dopo aver ricevuto da Simone di Giovanni la conferma del suo amore per Lui, gli disse per tre volte: “Pasci i miei agnelli” (Gv 21,15.16.17). Altrettanto è cosa buona e giusta intercedere per coloro che ci sono affidati, figli e coniugi, genitori e fratelli, giovani e anziani, malati e forti, affinché l’amore del Signore circoli liberamente per il corpo ecclesiale, vivificandolo. Infatti, il testamento di Gesù si compie ai piedi della croce con il duplice affidamento del discepolo amato a Maria e della Madre a lui: "Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre!". E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé." (Gv 19,26-27).
 
Jan van Eyck, Adorazione dell'Agnello Pala di Ghent dettaglio (1425-29)

domenica 11 maggio 2014

Delle cose buone da chiedere. IV

Rothschild Canticles, Connubium spirituale, XIV sec. 
Il quarto giorno della settimana ci ricorda la creazione dei luminari celesti, conviene intercedere per la Chiesa affinché alzi gli occhi dal proprio ombelico per volgere lo sguardo al Signore Gesù Cristo e per tenerlo fisso in Lui che la illumina, come è scritto: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4).

Durer, Sol Iustitiae, 1510
Cristo è il Sole di Giustizia che illumina il creato e lo rende fecondo di vita secondo Dio. La Chiesa è la luna che non ha luce propria, ma riflette la luce che brilla sul volto del Figlio di Dio, al quale deve sempre rivolgersi e incessantemente ritornare per essere illuminata e distinguere il bene dal male, il vero dal falso, il santo dall'immondo.

Benson, Luce solare, 1909
Gesù ha dichiarato: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12) e Giovanni il precursore gli ha reso testimonianza: “Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: "Non sono io il Cristo", ma: "Sono stato mandato avanti a lui.” […] Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,28.30), indicando con lucidità sulla roccia della verità le relazioni, e le conseguenti dinamiche, tra colui che è la Luce e coloro che ne sono illuminati.

Caspar, Pellegrinaggio all'alba o al tramonto, 1805

Altrove l’evangelista Giovanni, con il suo sguardo profondo come aquila, fa esclamare a Gesù: “Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (Gv 12,44-46).

Monet, Cattedrale di Rouen in piena luce, 1893
Intercessione quanto più necessaria in questi tempi, in cui la Chiesa è provata dalla tentazione del pelagianesimo, dal desiderio di fare da sé, riducendo inevitabilmente Dio ad un soprammobile, un dio tappabuchi, un idolo docile strumento nelle mani di chi vuole glorificarsi, mentre è scritto: “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà gloria” (Sal 115[113],9). "Sursum corda" invita il sacerdote all'inizio della liturgia eucaristica. Sì, rivolgiamo i nostri cuori in alto, perché Cristo è veramente risorto.

Rothschild Canticles, Maria come la "Mulier amicta sole", XIV sec.

domenica 4 maggio 2014

Delle cose buone da chiedere. III

Discesa agli inferi, Fanous
Il terzo giorno della settimana è opportuno chiedere l’umiltà perché in questo giorno si ricorda la creazione della terra e dei suoi verdi frutti. Come la terra produce "germogli, erbe e alberi da frutto" (Gen 1,12), così solo sul terreno dell'umiltà nasce l’albero delle virtù. L'umiltà è il fondamento delle virtù dal cui esercizio dipende la vita buona e bella in cielo ed in terra.
L’umiltà è il fondamento ontologico dell’esistenza di Gesù Cristo, dell’armoniosa sinergia tra la libertà divina del Verbo di Dio e Figlio del Padre e la libertà umana dell’uomo Gesù figlio di Maria, riflesso della sua natura divino-umana nella sua vita morale. 
Perciò è necessario chiederla con insistenza, perché solo il terreno fecondo dell’umiltà divino-umana di Gesù Cristo fa nascere bei fiori e buoni frutti. Perciò san Giovanni insiste tanto sul rimanere in Gesù: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,4-5).

Salvatore mite ed umile di cuore