giovedì 23 maggio 2013

Sul Padiglione del Vaticano alla Biennale

   C'è chi pensa che il dialogo con il mondo sia inseguire i maître à penser per esserne battezzati. C'è chi pratica il dialogo con il mondo senza accorgersi che dietro o dentro il mondo può celarsi la mondanità del "principe di questo mondo" (Gv 12,31; 16,11) col quale giammai si può dialogare per non incorrere nell'errore di Eva: interloquire col "padre della menzogna" (Gv 8,44) comporta l'abbandono dell'unico Signore.
   Esempio di un siffato dialogo col mondo è la partecipazione del Vaticano alla Biennale di Venezia. Il Vaticano ha scelto come tema per la sua prima volta il libro della Genesi. Per ironia della sorte è lo stesso tema che cinquecento anni orsono Michelangelo affrescò sulla volta della Sistina.


   Ecco il commento di Gabriella Rouf pubblicato sul n° 753 de Il Covile.

La rinascita del bello negli ateliers e le mummie della Biennale. Un aggiornamento.
   Né cronache di arte. Né cronache vaticane. Il Covile interviene sui territori di confine, dove la distanza colloca con più chiarezza la prospettiva. La relazione di Aude de Kerros pubblicata nel n° 748 ne dà una, confortante e impegnativa: la rinascita del bello negli ateliers.
   Vogliamo pertanto considerare residuale, comunque vada votato all'oblio, l'imbarazzante episodio del Padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia. Passarlo sotto il silenzio che merita, come quelle operazioni intempestive e attardate, che si affrettano a mettersi in pari, pagando pegno per entrare nel gioco? Sul paradosso istituzionale, e sulla subalterneità alle mode dell'Arte Contemporanea concettuale, c'è poco da dire, fatti e immagini si commentano da sé. Che esso sia il prodotto del carrierismo e protagonismo di alcuni personaggi della Curia, anche questo è purtroppo evidente. Che ci sia anche un aspetto inquietante di spreco di danaro, di fatua complicità con il sistema speculativo dell'AC, chi può negarlo?
   L'iniziativa, per molti versi inopportuna, e le difese di essa, per quanto impacciate e stizzite, sembrano però mirare (e questo è più preoccupante) ad ufficializzare un punto di non ritorno, e proprio nel momento in cui il monopolio e l'arroganza dell'AC sembrano messi in discussione, e lo sono comunque dal ridursi dei flussi finanziari di cui essa non può fare a meno per esistere. Insomma, mentre i MAXXI vari collassano sul proprio vuoto, e i vip dell'AC vanno a cerca di qualunque connubio (con moda, pubblicità, arredi urbani ecc.) purché retribuito, è proprio la «commissione cultura»della Santa Sede ad accreditare come arte la produzione di «oggetti estetici» che arte non sono, che emergono per cooptazione da un mercato drogato e speculativo, in mano a lobbies ben note, eticamente e professionalmente indifendibili. Questo errore di prospettiva e di valutazione, arrogante quanto imprudente, ha una duplice negatività: quella evidente, perché trasferisce su opere banali e insulse un'aura a cui mai potrebbero aspirare, e quella «che non si vede», perché svia altri possibili e fecondi confronti, dando ad essi la sponda fasulla di avanguardie spossate e senili, di «arti povere», di avanzi e robaccia messa in saldo sui circuiti internazionali.
   Che questa impostazione vada a confluire con quella della gestione del «Il Cortile dei Gentili» non è una forzatura, perché il cardinal Ravasi stesso trionfalisticamente vi accenna, preannunciandone ulteriori tappe, forse usando la tattica del fait accompli. Come notammo a suo tempo, l'intuizione di Papa  Benedetto è stata stravolta dalla gestione ravasiana, trasformandola in un programma di eventi istituzionali, palcoscenico in cui ognuno rappresenta se stesso (lui per primo), con i soliti (o anche insoliti, se si pensa al cabaret de CdG di Parigi) professionisti dell'ateismo, dell'agnosticismo, ecc..
Iniziative di questo genere, del resto scontatissime, non hanno mai turbato nessuno, né tanto meno convertito, sono tipiche «iniziative culturali», in cui si vanta la partecipazione di questo e di quello, per dimostrare apertura di vedute e il riconoscimento da parte di ipotetiche élites intellettuali (in realtà tuttologi pronti a tutto).
   È questo stesso schema che sta dietro alla partecipazione del Vaticano alla Biennale, e basta leggere le dichiarazioni di Ravasi in proposito: da una parte dimostrare che la Chiesa ha attenzione verso il mondo dell'arte, preso come oro colato per quello che è ufficialmente, con i suoi «artisti famosi», curatori ambiziosi e critici prezzolati e, dall'altra fare in modo che la Chiesa sia presente come istituzione in un ambiente che si avvale di un'eco mediatica (spesso procurata del resto con scandali «ad arte»). Il pasticcio che ne deriva è evidente: sponsorizzare il concettuale, che arte non è? Proporre agli «artisti» un tema vagamente religioso? Andare sul sicuro, con nomi storicizzati? E il costo dell'operazione?
   Questo disorientamento è paradossale, perché l'arte sacra cristiana costituisce di per sè un termine di discernimento, in quanto risorsa spirituale e materiale condivisa, arte dell'incarnazione, integralmente umana, testimonianza di fede, sintesi di testo sacro, culto, devozione. Mai al servizio dell'artista, per quanto geniale. Mai espressione di una generica spiritualità, ma di profondi ed elaborati concetti teologici, leggibili in simboli e figurazione.
   L'arte concettuale, non può essere che a servizio dell'artista, anzi della firma, in quanto lo stesso statuto di arte le viene da una convenzione interna al sistema AC, e la firma è a sua volta prodotto di operazioni finanziarie e commerciali. L'arte concettuale è l'arte della dittatura, dittatura soft nell'occidente, dittatura di regime in Cina. È la copertina patinata degli orrori marcianti delle teorie del gender, del relativismo morale, degli apparati speculativi e dei poteri forti. Non si può ignorarlo, e spremere da essa ipotetici aneliti al divino; anche il suo morali smo, nel mettere in evidenza i mali della società, è, com'è noto, compiaciuto e pretestuoso.
   Del resto, l'arte non è politica, in cui occorre individuare ragionevoli compromessi per il bene comune. In ogni caso, quest'ultimo è ignorato e irriso dallo spreco e dalla mondanità fatua che caratterizza gli eventi legati all'AC, eventi usa e getta, mentre la spesa sul patrimonio avrebbe invece carattere di investimento.
   La Chiesa deve ripercorrere e recuperare il suo ruolo di committenza, smarrito nelle teorizzazioni di padre Couturier, pervertito in una vera marcia della follia nella teologia del Collège des Bernardins e negli scempi delle archistar e negli adeguamenti liturgici horror. L'arte è incarnazione di Bellezza, e pertanto non ha niente a che fare con l'arte ufficiale AC, che è una metafisica rovesciata, per la quale qualunque bruttura, oscenità, insensatezza, una volta che sia cooptata e accreditata da un sistema  autoreferenziale, viene imposta come arte, oggetto di culto, orrido feticcio.
Cardinale Ravasi
   Ravasi questo non vuole vederlo, e si guardò bene da rispondere a suo tempo a Jean Clair che sollevò con chiarezza questi problemi al Cortile dei Gentili di Parigi, invocando una diversa assunzione di responsabilità della Chiesa di fronte alla deriva autodistruttiva dell'arte, ormai consumatasi nel monopolio globalizzato dell'arte concettuale. Gli argomenti di Ravasi e dei promotori del Padiglione del Vaticano alla Biennale sono una triste eco di quelli di padre Couturier: triste perché bene o male il domenicano aveva a che fare con Matisse, Chagall, Picasso, insomma con gente che sapeva il suo mestiere, realizzava opere d'arte e aveva una sua etica. Motivava mesi fa Ravasi, operando vertiginosi salti logici:

«[...] è un terzo ambito di evangelizzazione che è stato per secoli decisivo, ed è quello dell’arte che esige oggi di essere ritessuto secondo la nuova grammatica e stilistica delle espressioni artistiche contemporanee senza perdere il legame con la sacralità del culto cristiano. In questo orizzonte si colloca l'invito rivolto ad alcuni artisti di partecipare, con una loro opera ispirata al tema della Creazione-Decreazione-Nuova Creazione, nel padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia.»

   Se l'arte è stata decisiva per secoli, lo è stato in quanto integrata e condivisa con la vita dei popoli e della Chiesa, con le sue tradizioni e il suo magistero. Oggetto dell'evangelizzazione non era tanto l'artista o l'ambiente artistico, quanto il popolo nel suo insieme, senza che questo volesse dire una strumentalizzazione dell'arte, anzi: proprio da questo legame con il popolo e con la trascendenza, l'arte cristiana ha espresso la metafisica del visibile, a cominciare dalla figura umana nella sua realtà, nobilitata e trasfigurata dall'Incarnazione. L'artista, anche di grande successo, si metteva al servizio di un progetto iconografico, che era tutt'altro che una banalizzazione dei testi sacri, bensì una catechesi per immagini, capace anzi di esprimere diversi e complessi percorsi dottrinali e morali; pensiamo, per esempio, alla Cappella degli Scrovegni, e come la sua impostazione teologica agostiniana si confronti con quella contemporanea di Dante, ispirata a San Tommaso.
   Questo linguaggio, e questa grammatica (per usare le parole di Ravasi), pur in un meraviglioso, inesauribile mutare storico, sono gli stessi ed eterni, perché radicati nella realtà dell'uomo, nei suoi sensi, nel suo cuore. La Bellezza non è qualità relativa, anche se infinite sono le forme in cui si rivela. Certo, esiste un problema di ricerca, di sapienza, anche un mistero. Ma con l'arte contemporanea AC, il processo è esattamente opposto, perché si parte da un a-priori convenzionale, da un concetto, da una trovata qualunque che possa corrispondere a qualche segmento del sistema: dall'oggetto «povero» esposto come tale, al tecnologico, all'osceno, alludico, al blasfemo, all'informe irriconoscibile come opera, e come tale totalmente disponibile (così ci si può trovare l'anelito all'infinito, al divino ecc..). Non si può parlare allora di linguaggio o tanto meno di grammatica, perché nulla in questo prodotto è per definizione condivisibile e comunicabile, va accettato per quello che squallidamente è, salvo poi impacchettarlo in qualche pia intenzione, corredato d'istruzioni per l'uso (si paga per questo, visto che un valore intrinseco non c'è). È l'esatto opposto del simbolismo, in cui un'immagine offre plurime e stratificate letture: l'arte concettuale realizza un'immagine brutta e insensata, che a sua volta non significa nulla. Il ridicolo cero del Duomo di Reggio Emilia è un brutto tubo tra il razzo e lo scaldabagno, e tale rimane, muto e chiuso nella sua sgraziata materialità.
   Le problematiche sui linguaggi artistici del sacro e sull'opera incarnata sono sempre state feconde nei secoli, tutt'altro che immobili o scontate, tutt'altro che eterodirette. Esse hanno mosso dall'interno l'intera storia del'arte dell'occidente, perché la Bellezza come valore trascendente incarnato nell'umanità di Cristo ha dato alla rappresentazione della natura e della figura umana una dignità ed una ricchezza inesauribile, sfida e stimolo alla forma. È solo nel XX secolo che il tessuto si è lacerato, e l'arte si è prosciugata e inaridita nei soli aspetti esistenziali, perdendo rapidamente il dominio e la sapienza della forma, per venir meno nella sua essenza e nella sua vera libertà. Questo però non è un processo irreversibile, e la testimonianza dell'arte del passato e della Bellezza dell'uomo e della natura, non potrà non richiamare la sensibilità e il talento alla rappresentazione della realtà nei suoi aspetti complessi e profondi, nella sua gloria e nel suo mistero. In questo quadro iniziative come quella del Padiglione vaticano alla Biennale, anziché «ritessere» alcunché, testimoniano conformismo ai fasti mondani, e, più  profondamente, il disagio di una diffusa cecità, ottusità del cuore e dei sensi, abitudine al brutto, che è poi la forma del male.
   I sostenitori dell'AC, com'è noto, sono i suoi peggiori propagandisti, appena tolti dai loro laboratori protetti. Padre Dall'Asta, emissario del card. Ravasi sul terreno, e nel cui curriculum c'è lo scempio del Duomo di Reggio Emilia, non ha dubbi: il dialogo è tra Chiesa e arte concettuale AC, la religione del postmoderno. Che vi sia un'Arte di oggi diversa, che sia in corso, a livello internazionale, una seria discussione sull'Arte, e sull'Arte cristiana, Dall'Asta lo ignora. Egli fa propria l'ideologia e la pretesa dell'AC che non essendo arte, necessita di un riconoscimento extra artistico, concettuale e pecuniario insieme. Il Padiglione del Vaticano alla Biennale glielo dà. Esso offrirà una copertura di parole, parole, ai soliti imparaticci, ai soliti assemblaggi di materiali, che trarranno un'aura dalle generose didascalie del card. Ravasi. L'episodio fa del resto emergere tensioni più profonde: le dichiarazioni di Dall'Asta, infatti, si fanno torve e isteriche quando allude a chi non condivide i suoi obnubilamenti, sprezzanti e minacciose quando preannuncia nuove offensive (è la parola giusta) dell'AC nell'arte sacra e liturgica. Anche in questo si dimostra dove si trova la sincera sollecitudine, la competenza e la condivisione — la generosa battaglia di Francesco Colafemmina — e dove invece la subalternità alle mode, la posizione di privilegio e l'indisponibiltà a qualunque serio confronto.
Raffaello, Papa Leone X e i cardinali Giulio de medici e Luigi de Rossi

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