mercoledì 13 marzo 2013

Caro cardo salutis

La parabola del padre misericordioso (Lc 15) è aperta, affinché ciascun lettore decida come concluderla. Ecco lo svolgersi dell'azione. Il destino del figlio minore è noto: per il suo ritrovamento in cielo si festeggia allegramente, è la soluzione del dramma umano secondo la mente di Dio. Il destino del figlio maggiore rimane, invece, sospeso: entrerà in casa dove si festeggia per il fratello minore, oppure resterà fuori, solo con il suo rancore, in quelle tenebre esteriori ove risuona lo stridore dei denti? La soluzione definitiva ancora manca, sospesa alla libertà del fratello maggiore.


Il figlio perduto è salvato dalla carne affamata. Quando comiciò a trovarsi nel bisogno, divenne pastore di maiali e nessuno gli dava nulla: è solo e affamato. La carne affamata del suo corpo diventa la sua maestra e gli ricorda la via smarrita. Il primo passo, quello decisivo, lo fa rientrare in se stesso. Il secondo passo viene di conseguenza, egli rammenta che la situazione dei salariati di suo padre è migliore della sua: loro ricevono il pane, cibo dei figli, mentre a lui nessuno dà nemmeno delle carrube, cibo dei porci. Col terzo passo, ancora traballante, decide di ritornare da suo padre e di chiedere perdono, pur riconoscendolo come padre, non tira la conseguenza logica e necessaria di riconoscersi figlio, decide di chiedergli solo d'essere un servo. Tutto ciò grazie alla carne, vero cardine della salvezza.


Il figlio minore pecca contro il Cielo, contro se stesso e contro suo padre.
Contro il cielo quando abbandona la casa paterna, pretendendo l'eredità prima del tempo, prima di restare orfano. Contro di sé quando dichiara di non essere più degno d'essere chiamato suo figlio, pur chiamandolo ancora padre contraddicendosi. Contro suo padre quando decide di chiedergli di trattarlo come uno dei suoi servi.
Il figlio maggiore pecca contro suo padre, contro se stesso e contro suo fratello. Contro suo padre quando non lo chiama padre e lo tratta come un padrone. Contro di sé quando si condanna a vivere come un salariato di suo padre, non riuscendo a diventare figlio che condivide con il padre ciò che il padre possiede. Contro suo fratello quando non lo riconosce come tale, ma solo come figlio di suo padre.

Nelle allegre parole che il padre rivolge prima ai servi poi al figlio maggiore forse v'è un'allusione implicita al destino pasquale di Gesù, il Figlio del Padre "che era morto ed è tornato in vita" (Lc 15,24.32) per ritrovare i suoi fratelli perduti. La resurrezione di Gesù è motivo eterno di esultanza. In Cristo tutti gli uomini, suoi fratelli minori perduti, sono ritrovati dall'amore paterno grazie all'obbedienza filiale del primogenito. Non servile come l'obbedienza vissuta dal primogenito della parabola, il cui destino aperto è il nostro, quello di ciascun moralista che giudica Gesù perché "accoglie i peccatori e mangia con loro" (Lc 15,2) e non comprendono la divina necessità di "far festa e rallegrarsi" (Lc 15,32). L'uomo che era perduto è stato ritrovato, è molto più prezioso della moneta e della pecora per cui fanno festa la donna e l'uomo della prima parte della parabola (Lc 15,4-10).

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