domenica 9 dicembre 2012

Lettera aperta alla Chiesa Cattolica di Brescia

Non a noi Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà gloria
(Sal 115,[113B],1)
Ringrazio Dio Padre per te, Santa Chiesa Cattolica di Brescia che sei mia madre, avendomi rigenerato nel battesimo e inserito nella Comunione della santissima Trinità. Accetto fin d’ora le decisioni che il vescovo Luciano prenderà dopo le riflessioni svolte dal Sinodo sulle unità pastorali; al riguardo ti scrivo le mie perplessità, mosso non dall’animosità, né dal risentimento, bensì dall’amore filiale; altresì ti confido le mie preoccupazioni rispetto alla tua odierna situazione.

mons. Luciano Monari vescovo di Brescia
Il drammatico raffreddamento della fede di molti cristiani - laici, religiosi e chierici – è un grave pericolo, se non già tragica realtà e può celarsi dietro l’apparente vivacità riorganizzativa. Il freddo che attanaglia la fede di molti è segno che la fede può perire, residuando quale reperto di antichi splendori il solo dono divino della fede, disincarnato dall’intelligenza e volontà umane, rimane fede inerte, custodita sotto una campana di vetro.
L’apparente vivacità riorganizzativa è l’ultima maschera dietro la quale si finge o ci s’illude di credere; grandi spazi organizzati, tanti impegni pastorali, tante parole umane (forse anche le mie) che riempiono di niente la mente e il cuore e non lasciano spazio all’Unico Necessario, il Dio vivo e vero. Anche Marta, sorella maggiore di Lazzaro, era presa dalle molte preoccupazioni per accogliere come si deve nella sua casa Gesù e la sua compagnia… tutte cose molto importanti per lei, ma non necessarie a Lui. Anche oggi siamo afflitti dalla sua santa frenesia; per riuscire a parlare con un ministro di Dio spesso non è sufficiente prendere appuntamento, bisogna anche sperare di non essere rimandati per sopraggiunti impegni più urgenti o importanti. Così noi e i nostri figli, adeguatamente riempiti di cose materiali e di molti impegni, torniamo a casa e non troviamo l’unica cosa veramente necessaria: qualcuno che ci accolga, e che ci ascolti, questo è ciò che tutti cerchiamo, anche Gesù. E noi, uomini e donne impegnati nella pastorale - vescovi, preti, diaconi, frati, suore, catechisti, operatori pastorali, animatori - così indaffarati e così pieni dei nostri impegni, ascoltiamo l’unico Signore? Parafrasando san Giovanni, possiamo affermare in verità di ascoltare Dio che ci parla e che non vediamo, se non ascoltiamo i fratelli che vediamo?
Mi sembra che nelle comunità parrocchiali della nostra Diocesi, prevalga nettamente la dimensione petrina della Chiesa, dimensione fatta di ministeri e molte attività pastorali, mentre manchi quasi del tutto la dimensione mariana della Chiesa, ovvero l’ascolto, l’adorazione, l’amore del Signore. Il clero spesso si è laicizzato, illudendosi così di avvicinarsi al mondo, ed il laicato sovente si è clericalizzato, credendo di avvicinarsi a Dio; ma ciò non significa forse scimmiottare ciò che non si è, perdendo l’unica opportunità di diventare se stessi? Corresponsabilità non significa che tutti fanno tutto, ma ciascuno fa ciò che è: il prete faccia il prete, la suora faccia la suora, gli sposi facciano gli sposi. Questa confusione dei ruoli è un segno della fase adolescenziale che affligge le Chiese in Occidente da vari decenni.
Altro segno della decennale adolescenza è il ripiegamento su di sé, la lunga riflessione, l’esasperante discussione sul tipo di chiesa: preconciliare/conciliare, della testimonianza/della mediazione, tradizionale/postmoderna, dialogica/missionaria, della giustizia sociale e della pace/della difesa della vita e dei principi irrinunciabili, locale/universale… sembra di sentire la Chiesa di Corinto, aspramente ripresa dall’apostolo Paolo perché divisa tra fautori di Apollo, di Paolo e di Cefa. Ancora oggi siamo divisi in molte più fazioni perché ciò che cerchiamo di realizzare è il nostro progetto di chiesa, invece che cercare di attuare il progetto di Gesù Cristo sulla sua Chiesa; cerchiamo ancora la nostra volontà, demoniaca come ebbe a chiarire Gesù a Simon Pietro, al posto della santa Volontà di Dio.
Siamo fermi a questa fase di crescita, ora basta. Andiamo avanti, alziamo lo sguardo dall’ombelico della chiesa e teniamolo fisso su Gesù, l’autore della nostra fede. Dedichiamo seriamente tempo alla preghiera, per chiedere come Salomone un cuore che sappia ascoltare, come quello di Maria nostra madre, ascoltiamo realmente il prossimo che vediamo e faremo vero ascolto del Signore che ancora non vediamo. Per rinunciare alla nostra volontà e fare la volontà di Dio, la sola che ci introduce nella pace.

   
Un ultimo appunto al titolo vagamente beat che è stato dato al Sinodo: “Comunità in cammino". Esso evoca il viaggio come senso e meta ultima del cammino, così com’è proposto da Jack Kerouac nel romanzo On the Road!
Siamo in cammino, ma verso dove, per quale meta?
Tutte ciò che vive, è inesorabilmente in cammino verso la morte, una meta universale che ciascuno di noi, in quanto creatura mortale, condivide con l’umanità e con gli esseri viventi; ma la morte non può essere la meta finale della Chiesa, nata dal mistero pasquale di Gesù; come Chiesa siamo in cammino verso il Regno, verso il Re che ritorna per giudicare.
Quale motivo ci mette in cammino, quale desiderio, quale spirito?
Il desiderio urgente di comunicare ciò che ci ha sorpresi come la vergine Maria quando corse da Elisabetta, oppure il bisogno urticante di fuggire dal vuoto che ci attanaglia le viscere come gli apostoli la notte della passione? Ci muove lo Spirito Santo di Dio o il volubile ed instabile spirito del tempo? Il dovere di annunciare il Vangelo a ogni creatura come l’apostolo Paolo, ovvero la volontà di fuggire dalla propria missione come il profeta Giona?
I padri del deserto insegnano unanimi a restare nella propria cella; per i monaci la cella è anche la propria stanza, ma soprattutto indica il cuore, la vita, dalla quale spesso si cerca di fuggire, come i due figli del Padre misericordioso; fuga che porta a vivere fuori da se stessi, come il figlio minore, oppure come il maggiore, a voler restare fuori di casa; ma solo chi rientra in se stesso può entrare in casa. Se non amiamo il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, siamo terra deserta, inaridita, senza acqua, restiamo dei patetici assetati che s’illudono di dare l’acqua viva che non hanno. Dobbiamo scavare più a fondo, svuotarci di noi stessi per lasciar posto a Dio. Solo a questa condizione diverremo lampada che brilla, perché lasceremo risplendere in noi la luce di Cristo, non più offuscata dalle nostre pallide luci. Cristo, non la Chiesa, è la luce delle genti.

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