Seguo con molto interesse il dibattito che si stà svolgendo sul sito chiesa e sul blog settimo cielo di Sandro Magister circa l'ermeneutica del Concilio Vaticano II. In particolare mi è piacito l'intervento del prof. Morini Continuità e rottura: i due volti del Concilio Vaticano II, al quale faccio le seguenti tre obiezioni ed una rapida considerazione sul tema continuità e rottura.
1. Anche la Tradizione, come la natura, non fa salti.
La continuità con il passato remoto del primo millennio non è possibile saltando il passato prossimo costituito dal secondo millennio. La continuità storica del presente con il passato implica l'integrità della storia passata, ovvero l'accoglienza serena di tutti i singoli istanti che nel loro complesso insieme costituiscono il passato, senza alcuna selezione che sarebbe rimozione alienante.
Per ritornare o recuperare il passato del primo millennio abbiamo necessità del secondo millennio senza il quale non abbiamo accesso nemmeno al primo millennio.
2. Se il primo millennio è l'epoca d'oro nella storia della Chiesa, mentre il secondo millennio l'epoca peggiore, abuso dello stesso schematismo, come può il meglio produrre il peggio? Può forse l'albero buono dare frutti cattivi? Le cause dello scisma tra Roma e Costantinopoli, sancito dalle scomuniche reciproce del 1054, grazie a Dio levate nel 1965, sono maturate tutte nel primo millennio
3. E' utile auspicare il ritorno della Chiesa ad un'epoca della sua storia e operare per un tale recupero? La Chiesa deve ritornare solo a Dio, non al proprio passato, quale che sia. Dio non è un mero ricordo del passato, buono da sigillare asettico in una teca museale. Dio è il Vivente, Colui che è, che era e che viene (Ap 1,4) e ritornare a Dio significa accogliere il suo avvento, prepararsi alla sua seconda venuta, volgersi alla sua escatologica parusia, tensione spirituale che è andata scemando nella Chiesa.
La tesi ermeneutica del prof. Morini è che il Cancilio Vaticano II sia stato intenzionalmente continuità e rottura.
L'et et è sicuramente un approccio cattolico, a differenza dell'aut aut. Questa regola ermeneutica dell'et et vale a fortiori per ciascun periodo della storia della Chiesa, dal Niceno I al Vaticano I.
Il Niceno I ha rotto con la tradizione precedente che formulava la fede cristologica utilizzando esclusivamente il linguaggio biblico, perché insufficiente per rispondere adeguatamente alle affermazioni e/o obiezioni eterodosse degli ariani, è con grande coraggio introdusse nella professione della vera fede un termine estraneo alla sacra Scrittura, il termine filosofico greco di "omoousios", in latino "consubstantialem", in italiano "della stessa sostanza". Tale rottura è stata funzionale e necessaria per garantire la continuità nella professione della fede in Cristo.
Ciò vale anche per la vita di Gesù?
A naso direi di sì, sia rispetto alle attese d'Israele suo popolo (dal tentativo fallito di farlo re al rifiuto di riconoscerlo come re), sia rispetto alla (in-)comprensione dei suoi discepoli (da Simon Pietro a Giuda, passando per Tommaso). La dinamica continuità/rottura appartiene alla forma stessa della fede plasmata dall'oggetto della fede, la morte e resurrezione di Gesù, appunto continuità e rottura.
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